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BES 2020, i dati ambientali

INFOGRAFICA Rapporto sul Benessere equo e sostenibile 2020 – Ci sono ancora molti aspetti critici per il dominio 10 del Rapporto sul Benessere equo e sostenibile (Bes) di Istat, quello dedicato all’ambiente. Malgrado e i miglioramenti avuti nell’ultimo decennio su alcuni temi, la situazione ambientale italiana continua a presentare un quadro sostanzialmente negativo per i 21 indicatori considerati dal Rapporto Istat. I dati sono riferiti per lo più al 2019 con alcune anticipazioni dei valori del 2020.

Il lento calo delle emissioni di gas serra

Il dato più rilevante per l’equilibrio del Pianeta, le emissioni di gas serra, ha un andamento positivo nel Bes 2020. Le tonnellate di CO2 equivalenti per abitante sono in costante calo: 8,8 tonnellate pro capite nel 2010, 7,5 nel 2015 e 7,1 nel 2019. Una tendenza al ribasso che dovrebbe proseguire nel 2020, “merito” soprattutto del prolungato lockdown che ha costretto molte attività a chiudere. Un miglioramento che, però, appare ancora inadeguato per raggiungere gli obiettivi prefissi dall’Accordo di Parigi, ossia il contenimento del riscaldamento globale entro +1,5° C rispetto all’era pre industriale. In discesa sono pure le emissioni pro capite generate dalle famiglie, generate soprattutto per il consumo di combustibili per trasporto privato e usi domestici, arrivate a 1,8 tonnellate per abitante nel 2019, pari al 25,7% del totale (nel 2015 era il 26,1%).

Gli effetti riscaldamento globale

Interessanti sono i rilevamenti di alcuni degli effetti generati dal riscaldamento globale, a cominciare proprio dalle variazioni termiche. Le temperature minime e massime del 2020 confermano il graduale aumento rispetto al periodo di riferimento 1981-2010 e segnano rispettivamente di +0,9 °C e +1,3 °C a livello nazionale. Gli incrementi più rilevanti si registrano al Nord (temperatura minima +1,3 °C e temperatura massima +1,6 °C) e al Centro (+0,9 e +1,4 °C). In ascesa è pure la durata dei periodi di caldo rilevati dall’indice WSDI (Warm Spell Duration Index) che rappresenta il numero di giorni nell’anno in cui la temperatura massima è superiore al 90° percentile della distribuzione nel periodo climatico di riferimento (1981-2010) per almeno sei giorni consecutivi. Un indice che mostra un aumento delle “ondate” di calore nel 2019 e 2020 in tutte le regioni, con l’eccezione di Calabria e Sicilia, ma con intensità inferiore ai record registrati nel 2011 (+26 giorni) e nel 2015 (+21).

Indice di durata dei periodi di caldo (WSDI): scarti dalla mediana climatica (periodo di riferimento 1981-2010) per regione e ripartizione geografica. Anni 2019-2020

Critica è la situazione meteo. Nel 2020 sono aumentate le precipitazioni (+1%), ma con forti differenze sul territorio, con incrementi considerevoli concentrati nel Nord-est (+19,3% nel Trentino-Alto Adige) e riduzioni di più del 7% in gran parte del Mezzogiorno. In crescita sono pure le precipitazioni estreme rilevate dall’indice R50mm (Number of severe rain days) che rileva i giorni con piogge giornaliere uguali o superiori a 50 mm. In Italia l’indice mostra una variazione positiva (+1 giorno) in 6 dei 10 anni osservati con le situazioni più critiche localizzate in Friuli-Venezia Giulia, Liguria e provincia autonoma di Trento.

Indice di precipitazioni molto intense (R50mm): scarti dalla mediana climatica (periodo di riferimento 1981-2010) per regione e ripartizione geografica. Anni 2018-2020

A rimarcare l’aumento degli eventi estremi e la situazione meteo opposta, ossia i prolungati periodi di siccità con conseguente riduzione di risorse idriche e peggioramento della qualità dell’aria in alcune aree del Paese. Secondo l’indice CDD (Consecutive Dry Days), che rileva il numero massimo di giorni consecutivi con precipitazione giornaliera inferiore a 1 mm durante l’anno, gli ultimi due anni hanno segnato dati superiori alla media del 1981-2010, in particolare nel 2020 e nei territori del Nord-est e di alcune aree interne peninsulari.

Indice di giorni consecutivi senza pioggia (CDD): scarti dalla mediana climatica (periodo di riferimento 1981-2010) per regione e ripartizione geografica. Anni 2019-2020

Meno consumi, più energia verde

A favorire il contenimento del rilascio di CO2 ha contribuito il settore energetico, con il calo della richiesta di “corrente” nel 2020 (302,7 TWh, -5,3% rispetto al 2019) causato dal prolungato lockdown e con la costante crescita della quota di elettricità generata da fonti rinnovabili, come idroelettrico, termico da biomasse, geotermico, eolico e fotovoltaico. Un andamento positivo che ha consentito all’energia “verde” di coprire nel 2020 più del 37% (oltre il 3% in più rispetto al 2017) del fabbisogno nazionale, con punte record di 53% ottenuto a maggio. Si tratta di percentuali superiori rispetto all’obiettivo del 26,4% fissato proprio per il 2020. Viceversa, è lontano dagli obiettivi l’indice del consumo di materiale interno DMC (Domestic material consumption), ossia la pressione esercitata dal sistema economico sull’ambiente. In discesa del 30% circa tra il 2010 e il 2018, ha segnato un +1,7% tra il 2017 a il 2018 arrivando a 489,9 milioni di tonnellate.

Richiesta di energia elettrica e consumi di energia elettrica da fonti rinnovabili (FER) per mese. Anni 2019-2020. GWh e valori percentuali

Migliora il ciclo dei rifiuti

Andamento positivo per il ciclo dei rifiuti, seppur con ancora molte lacune da affrontare. La produzione di rifiuti urbani nel 2019 si attesta a 30,1 milioni di tonnellate, pari a 503,6 kg per abitante, valore in crescita rispetto al 2017 (+15 kg per abitante). Nel lungo periodo (1996-2019) si è comunque registrato una flessione pro capite di circa il 10% toccando il valore massimo nel 2006 (559,1 kg) e minimo nel 2015 (486,2 kg). La metà dei rifiuti è prodotta Nord, con l’Emilia-Romagna al vertice della produzione (661 kg) e la Basilicata a chiudere la classifica (353 kg).

Rifiuti urbani prodotti per regione. Anno 2019. Chilogrammi per abitante

In miglioramento è pure la percentuale di rifiuti conferiti in discarica poiché non “valorizzabili”, passata dal 46,3% del 2010 al 20,9% del 2019, quota che nel Nord si attesta al 10% mentre supera il 30% nel Mezzogiorno. Una percentuale nazionale destinata a scendere sensibilmente nel 2020 (la stima è di un calo del 16%) a causa del lockdown e delle conseguenti chiusura delle attività produttive. Ricordiamo che l’obiettivo è di arrivare al 2035 con solo 10% dei rifiuti urbani destinati alla discarica.

Rifiuti urbani smaltiti in discarica per ripartizione geografica. Anni 2010-2019. Valori percentuali

Invariate le aree protette, cresce il verde urbano

La tutela del territorio è in chiaro/scuro. La superficie delle aree protette appartenenti a Rete Natura 2000 e all’Euap (Elenco ufficiale delle aree naturali protette) è, di fatto, invariata dal 2012. Una tutela indispensabile per preservare la biodiversità che oggi copre il 21,6% del territorio terrestre nazionale (in Abruzzo e Campania le regioni con maggiore superficie) e il 7,2% delle acque territoriali italiane. Dati nel complesso positivi, ma con fondi per la loro gestione in costante discesa e inferiori alla media europea.

Spesa pubblica per Servizi culturali e Protezione della biodiversità e del paesaggio nei paesi Ue. Anno 2018. Punti percentuali di Pil

Cresce lentamente la presenza del verde pubblico nelle città italiane, ora pari a 32,8 metri quadrati per abitante con un aumento medio dal 2011 di +0,6% all’anno (+0,3 al Sud). In compenso, la distribuzione del verde non è omogenea tra i 109 comuni capoluogo di provincia: il 50% circa della superficie complessiva è concentrato in 11 città mentre una città su dieci non raggiunge lo standard minimo, previsto dalla legge, di 9 metri quadrati per abitante.

Monitoraggio difficile dei siti contaminati

Preoccupa la carenza di informazione sui siti contaminati da parte delle anagrafi regionali che rende difficile avere un quadro esaustivo della realtà. Dai dati disponibili risulta che nel 2019 i siti contaminati da sostanze quali amianto, diossine, idrocarburi, pesticidi, PFAS (sostanze perfluoroalchiliche) sono 31.686, di cui 31.645 di competenza regionale e 41 di competenza nazionale. Le superfici contaminate ammontano a 242.026 ettari (171.198 ettari nei soli siti nazionali) suddivisi soprattutto tra Nord (152.235 ettari) e Mezzogiorno (69.778 ettari). In termini assoluti, il Piemonte è la regione con una maggiore estensione di superficie contaminata (108.207 ettari), seguito da Sardegna, Lombardia, Puglia, Friuli-Venezia Giulia, tutte con “contaminazioni” superiori ai 10.000 ettari. In termini relativi, il Piemonte si conferma la regione con la maggior percentuale di territorio contaminato rispetto alla superficie totale con il 4,26%, ma porzioni significative si hanno anche in Friuli-Venezia Giulia (1,92%), Sardegna (1,24%) e Puglia (0,93%), tutte con valori al di sopra della media nazionale (0,80%). I due siti più grandi sono quello amiantifero di Casale Monferrato (73.895 ettari) in Piemonte e quello del distretto minerario del Sulcis-Iglesiente-Guspinese (19.751 ettari) in Sardegna.

Balneazione vietata nel 33% delle coste

Famoso nel mondo per il Sole e il mare, il Bel Paese vede contrarre per il terzo anno consecutivo una delle sue risorse più attrattive per il tursimo, le coste marine. La percentuale delle acque balneabili scendono dal 67,2 al 65,5% dal 2016 al 2019 con gli arretramenti più rilevanti osservati nell’ultimo anno in Sicilia (dal 55,4% al 50,8%) e in Abruzzo (dal 77,5% al 75,5%). Viceversa, in tre regioni (Campania, Sardegna e Calabria) l’indicatore segnala un lieve incremento nella disponibilità alla balneazione. Nel complesso, le regioni più virtuose sono Basilicata e Calabria (90,8% e 85,3%), mentre quelle con più restrizioni nella fruibilità della costa sono Friuli-Venezia Giulia (42,2%) e Sicilia (50,8%).

La qualità dell’aria migliora, ma rimane fuori legge

Il prolungato lockdown, come previsto, ha avuto effetti benefici sulla qualità dell’aria, sia pur in maniera diversificata a seconda degli inquinanti rilevati. Dai dati del Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA) si rileva una riduzione generalizzata delle concentrazioni degli ossidi di azoto, del monossido di carbonio e del benzene. Un calo con riduzioni comprese tra il 10 e oltre il 70%, queste ultime ottenute nei siti localizzati in prossimità di importanti arterie stradali. Meno chiara è la situazione relativa al particolato (PM10, PM2,5), influita anche da diverse situazioni meteo. Rimane certa, però, la grave situazione dell’Italia nel contenimento di uno degli inquinanti più nocivi per la salute, il PM2,5, come dimostra il superamento del valore di riferimento dell’Oms (10 µg/m3) nell’80% delle rilevazioni effettuate dal 2010.

Superamenti della media annuale di PM2,5 rispetto ai valori di riferimento dell’OMS (10 μg/m3) sul totale delle misurazioni valide per ripartizione geografica. Anni 2010-2019. Valori percentuali

Seppure in miglioramento (i superamenti sono scesi dal 92,9% del 2010 all’81,9% del 2019), ci sono aree, come il bacino padano, che registrano valori ancora troppo elevati (dal 97,5% del 2010 al 91,2% del 2019). Miglioramenti più consistenti si hanno nel Centro (dal 92,2% al 74,4%) e nel Sud (dall’84,6% al 73,4% del 2019).

Superamenti delle concentrazioni medie annue di PM2,5 del valore di riferimento dell’Oms (10 μg/m3) per regione. Anni 2018-2019 e media 2010- 2018. Per 100 misurazioni valide

Nessuna variazione per le emissioni di ammoniaca, derivate da attività agricole e zootecniche non interessate dalle misure di limitazione legate al Covid-19. Un miglioramento generale che, però, lascia molte aree ancora lontane dal rispetto delle norme di legge tanto da coinvolgere l’Italia in numerose procedure di infrazione della direttiva europea 2008/50/CE.

Rete idrica con perdite del 42%

Continua ad essere preoccupante la perdita d’acqua registrata nelle reti comunali, pari al 42% dell’acqua potabile immessa. Di fatto, una quantità sufficiente per il fabbisogno annuo di 44 milioni di persone. Tradotto in numeri significa uno spreco di 3,4 miliardi di metri cubi (156 litri per abitante al giorno) sugli 8,2 miliardi erogati (371 litri). Dati sconfortanti arrivano anche per l’infrastruttura idropotabile nazionale con perdite in aumento da 20 anni e ora (2018) a quota 42% contro il 32,1 del 2008. Le regioni peggiori sono Abruzzo (55,6%), Umbria (54,6%) e Lazio (53,1%), la migliore è la Valle d’Aosta (22,1%). Oltre a essere un danno economico ingente, la dispersione di un bene prezioso come l’acqua implica una condanna anche di tipo etico. Inoltre, è bene ricordare che la quantità e qualità delle acque di falda è in costante peggioramento, fattore che rende ancora più preoccupante in prospettiva futura la situazione dei nostri acquedotti.

Acqua erogata per usi autorizzati e perdite idriche totali in distribuzione per regione. Anno 2018. Valori percentuali sul volume immesso in rete

Aumenta il consumo di suolo

Altra risorsa di rilievo a degradare è il suolo naturale, importante per conservare la biodiversità, “pulire” l’aria dagli inquinanti, assorbire la CO2 e prevenire calamità naturali, nonché utile per fornire superfici per l’agricoltura. A discapito dell’obiettivo “zero consumo” proposto dalla Commissione europea nel 2006, in Italia si continua a cementificare. Nel 2019 i terreni strappati alla natura raggiungono i 57,5 kmq, più del doppio dei 22,1 kmq registrati nel 2018. A “consumare” di più nel 2019 sono Veneto (+785 ettari), Lombardia (+642), Puglia (+625), Sicilia (+611) ed Emilia-Romagna (+404), mentre la Valle d’Aosta è la prima regione con un consumo quasi nullo (solo 3 ettari in più). In termini di incremento percentuale rispetto alla superficie del 2018, i valori più elevati sono quelli di Puglia (+0,40%), Abruzzo (+0,39%), Sicilia (+0,37%) e Veneto (+0,36%). Nel complesso le regioni con maggiore quota di suolo impermeabilizzato sono la Lombardia, il Veneto e la Campania, tutte oltre il 10% contro una media nazionale del 7,1% (nel 2012 era il 6,98%).

Suolo consumato per regione. Anno 2019. Percentuale della superficie regionale

La piaga dell’abusivismo edilizio

Strettamente legato al consumo di suolo è l’abusivismo edilizio, piaga con molti effetti negativi, tra i quali la riduzione della sicurezza di un territorio particolarmente esposto al rischio sismico e idrogeologico. I dati Istat rilevano per il secondo anno un calo degli abusivismi, però preceduto da un periodo stabile (2015-2017) e da una lunga fase di crescita rafforzata con la crisi economica del 2008. Un periodo nel quale la produzione edilizia “legale” ha subito una forte contrazione, mentre quella sommersa ha continuato a prosperare facendo incrementare nel 2008 l’indice di abusivismo di meno di 3 punti nel Nord (da 3,2 a 5,9), di 11 punti nel Centro (da 6,5 a 17,5) e di oltre 20 punti nel Mezzogiorno (da 24,6 a 45,2).

Indice di abusivismo edilizio per ripartizione geografica. Anni 2008-2019 (a). Nuove costruzioni abusive ogni 100 autorizzate

Rischio idrogeologico per il 13 % della popolazione

A vivere in aree classificate ad elevata o molto elevata pericolosità da frana e in aree a pericolosità idraulica media e alta (cioè periodicamente soggette ad alluvioni) sono il 12,6% degli italiani (dato 2017, in crescita rispetto al 2015). Ad aggravare il pericolo di calamità concorrono la crescente frequenza di eventi climatici estremi, la cementificazione, l’abusivismo edilizio, l’abbandono dei terreni d’altura, lo scavo scriteriato di cave, le tecniche di coltura non ecosostenibili e la mancanza di manutenzione dei corsi d’acqua. In compenso, dal 2019 al 2020 si è registrato un calo da 8.777 a 3.078 delle vittime (morti, feriti, dispersi e sfollati) dovuti a frane e alluvioni. Le regioni più a rischio sono Emilia-Romagna, Liguria e Valle d’Aosta e, nel Centro-Sud, Toscana e Abruzzo.

La situazione del clima preoccupa

Nel Bes 2020 compare una sezione dedicata alla percezione dei cittadini sulla situazione ambientale che fornisce interessanti indicazioni. La preoccupazione maggiore riguarda gli effetti dei cambiamenti climatici e l’aumento dell’effetto serra, con i cittadini impensieriti aumentati dal 58,7% al 71% dal 2014 al 2019, ma con un leggero calo nel 2020 (70,3%). Ad essere più inquieti per le conseguenze del clima sono gli abitanti del Nord (72,2% della popolazione) rispetto al Mezzogiorno (67,5%), seppure il record di preoccupati spetti al Molise (77,4%). L’allarme è diffuso in tutte le fasce di età, con i più giovani (in particolare tra 20-24 anni) più sensibili all’argomento rispetto agli over 65. Più evidenti le differenze associate al livello di istruzione, dove le persone con un titolo di studio medio-alto sono più preoccupare con percentuali superiori al 77%, circa il 10% in più rispetto a chi ha istruzione bassa.

Preoccupazione per i cambiamenti climatici e/o l’aumento dell’effetto serra per classe di età. Anni 2012-2020 (a). Valori per 100 persone di 14 anni e più

Ambiente gradito per il 70% degli italiani

Se la situazione globale allarma, quella locale appare meno drammatica, con la percentuale dei soddisfatti della situazione ambientale nella zona in cui vivono a raggiungere il 70,1% (+1,1 rispetto al 2019). Un valore più alto nelle regioni del Nord e del Centro (72%) rispetto a quelle del Sud (65%) e con record massimo in Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia e Valle d’Aosta (84%) e più basso in Campania (56,4%) e Sicilia (61,1%). Poco marcate le variazioni legate all’età e al titolo di studio. Per contro, aumenta la preoccupazione per la perdita di biodiversità, ossia per la scomparsa di specie animali e vegetali, espressa nel 2020 dal 24,3% della popolazione di 14 anni e più (era 22,2% nel 2019). I più sensibili sono i giovani e le persone con istruzione medio alta.

Soddisfazione per la situazione ambientale della zona in cui si vive per ripartizione geografica. Anni 2019-2020 (a). Valori per 100 persone di 14 anni e più

Il rapporto Istat completo è consultabili qui

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